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Il corteggiamento ai tempi del non cellulare

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cellulare
Oggi il telefono cellulare è una comodità data per scontata, ma negli anni 80 non esisteva.

Non farò dissertazioni filosofiche sull’uso e l’abuso del cellulare bla bla bla ma, mi colpisse un fulmine all’istante se non è vero, il cellulare ha modificato più di ogni altra cosa il momento più critico per ogni adolescente: il corteggiamento.

Si dice che gli adolescenti non hanno più pazienza: per forza, dico io, è cambiato il valore del tempo. Negli anni 80, un secondo con lei era un patrimonio, soprattutto se la conoscevi poco. Dovevi lottare per ogni istante e cercavi di sfruttarlo al meglio. Se non avevi pazienza, eri finito. Io per esempio avevo 15 anni e c’era questa ragazza. La vedevo il sabato sera in piazza. E basta. La piazza del mio paese non era grandissima, eppure era divisa in 3 zone: sotto la pensilina dell’autobus un gruppo, sui gradini del municipio un secondo, e noi stavamo dalla parte opposta della strada, davanti alla fontanella. Lei era coi ragazzi della pensilina. Bella ma non troppo, ma con quelle lentiggini che mi facevano andare fuori di testa. Non ci parlavamo, se non un ciao e poco più. Sapevo come si chiamava, dove abitava e persino il suo numero di telefono – quello di casa, ovviamente. Lo ricordo ancora e ve lo scriverei anche per dimostrarvelo, ma temo che il reato di stalking non sia ancora prescritto.

telefonoGià, perché la chiamavo tutti i giorni. Sì, lo so che ho detto che non ci parlavamo. Infatti la chiamavo e basta. Rispondeva sempre sua madre, e io appendevo. Ma il giorno dopo la richiamavo lo stesso, perché non volevo aspettare fino al sabato per rivederla. Un giorno ha risposto lei, e io… ho appeso. Se avessi avuto il cellulare sarebbe stato diverso: mi sarei fatto dare il numero da un amico comune, poi qualche messaggino carino. Sarebbe stata lì con me tutta settimana, a un polpastrello di distanza. Invece no, negli anni 80 se non giocavi bene le tue carte dovevi armarti di pazienza ed aspettare.

Che poi, quelli dall’altra parte della piazza erano i tuoi rivali. I maschi facevano la ronda alle “loro” ragazze quasi a proteggerle dai predatori, che poi eravamo noi. Noi facevamo lo stesso con le nostre. Le ragazze avevano un potere tremendo e gongolavano. Quando una delle “tue” attraversava per chiedere una sigaretta o un cicca, il segnale era forte e chiaro: voleva far ingelosire qualcuno; e lì scattava la danza rituale primordiale dell’homo (non troppo) sapiens. A ripensarci quel gioco di ruolo era anche divertente.

Passato il sabato, che a volte durava anche solo qualche minuto prima che un gruppo decidesse di spostarsi, c’era una settimana di nulla, in cui pensavo alle strategie per conquistarla. Una settimana a scrivere biglietti e lettere per poi buttarle immediatamente. Una settimana a camminare avanti e indietro per il paese sperando di incrociarla. Quante lettere ho scritto.

Quante lettere le ho scritto!

E poi, il passo decisivo. Quella lettera era più bella delle altre, sicuramente la più bella che avessi mai scritto. Senza dire niente a nessuno, ricorsi al più bieco degli stratagemmi: l’appostamento. Il lunedì sera lei andava agli allenamenti di pallavolo. Andava a piedi? Si faceva accompagnare? Non lo sapevo, ma mi feci trovare casualmente davanti alla palestra pochi minuti prima dell’inizio.

18.45, iniziano ad arrivare le altre; una di queste mi conosce bene e si ferma, mi parla e mi guarda negli occhi, io cerco di essere gentile ma è come se le guardassi attraverso. In realtà guardo dietro di lei, per vedere se arriva.
18.55, niente
19.00. Niente, forse stasera non c’è.
19.05. Decido di tornare a casa; sto già camminando quando sento dei passi dietro di me, mi giro ed eccola, con la borsa in spalla che corre verso il cancello. Cavolo, penso: è in ritardo, non posso fermarla. Invece il ritardo si rivela provvidenziale: non ha neppure il tempo di accorgersi di me. Mi giro, faccio dieci passi e sono subito davanti a lei che mi vede e mi lancia un “ciao” affaticato. Io le sorrido e le allungo la lettera. Si ferma, la prende e sorride. La mette in tasca e ricomincia a correre.

L’ultima cosa che vedo è il suo allenatore che guarda male lei, poi si gira e guarda male pure me. Così cominciavano le storie negli anni 80. E naturalmente, a volte è così che NON cominciavano…L’etica diceva che a lettera si rispondeva con lettera; molte volte non arrivava nessuna risposta. Quella volta arrivò. Il mercoledì sera, pochi minuti prima dei miei allenamenti di calcio, c’era lei davanti al campo sportivo.

Per due settimane abbiamo passato tutti i pomeriggi dopo scuola insieme. In bus, a piedi, in bicicletta. Sempre senza farci “sgamare“, perché nessuno lo sapeva né doveva saperlo. Quello stesso sabato lo ricordo come una delle più belle serate della mia adolescenza. Io, seduto sui gradini davanti alla mia fontanella, e lei seduta sul Garelli di ‘Popi’ davanti alla sua pensilina. E ci guardavamo complici, ogni tanto, sorridendo.

Poi va beh, si sa come sono i ragazzi a quell’età: a furia di sedersi sul Garelli di Popi, è andata a finire che dopo quelle famose due settimane mi ha lasciato e si è messa con Popi. Ma io quel tempo lo avevo speso alla grande: e come dicevo, negli anni 80 il tempo valeva molto di più. Anche le parole valevano di più: senza il computer e senza il cellulare se ne scrivevano meno, e si prestava più attenzione a quello che si diceva. Una lettera come si deve esigeva la “brutta copia” e la “bella copia“, parole estratte a fatica dal cuore come fossero un metallo prezioso e non uscite dai polpastrelli in pochi distratti istanti automatici.

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