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Intervista a Diego K. Pierini

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Diego Pierini
Diego K. Pierini.

Nato nel 1979, è la prova vivente che i videogiochi fanno male.
Miope, moderatamente sociopatico, ridotto in povertà dalla passione per le console vintage e come se non bastasse laureato in filosofia.
Ha scritto d’intelligenza artifi ciale, culture digitali, musica e cinema.

Ha alle spalle un lungo percorso nel settore televisivo, prima come autore di Parla con me, quindi a Voyager, The Show Must Go Off e Gazebo e oggi collabora con il programma Propaganda Live, e collabora con Synthesis come traduttore freelance di videogiochi.

Ti prestiamo la nostra DeLorean per tornare negli anni 80, qual’è la prima cosa che fai?
Cerco del plutonio.
Si sa che non lo vendono alla drogheria sotto casa e casomai mi venisse la bislacca idea di tornare nel nuovo millennio potrebbe farmi comodo.
Poi prenderei a sganassoni il “me” ragazzino che butta via le scatole di videogiochi, Transformers e via dicendo, ché se le avessi tenute adesso potrei comprare Bilzerian e metterlo a pulire i gabinetti.
Quindi credo ripeterei quanto fatto per un lustro ai tempi: mi chiuderei in casa con la VHS di “Aliens” e la rivedrei col piacere enorme del catodico monocromatico e che sfarfalla.

Cosa ti manca del periodo?
Paradossalmente, nulla.
Ho tutto con me, nei segni, nei ricordi, in alcuni oggetti, nelle sensazioni forti che non si sono estinte. Ciò che andrei a recuperare, però cum grano salis e non nella maniera scriteriata e pedissequa in voga oggi, sono un certo linguaggio cinematografico – movimenti di macchina, palette cromatiche, macchina del fumo come se piovesse – che il cinema mainstream ha completamente smarrito, e le proporzioni delle rotazioni musicali radiofoniche, in gran parte occupate da rock e affini.
Forse anche le sale giochi arcade, ma vale quanto detto sopra: mi sono organizzato.

Scrittore e videomaker, ma anche autore telisivo. Quanto gli anni 80 influenzano il tuo lavoro?
Come autore televisivo poco: ho sempre lavorato in trasmissioni in cui la fase di invenzione era in qualche modo limitata, per il mio ruolo, più rivolto alla ricerca di contributi musicali o alla stesura di interviste mirate a scienze, cinema e cultura.
Come scrittore, invece, molto, anche se confesso che per me il decennio rilevante è a cavallo tra 80 e 90, diciamo tra “The Final Countdown” e “Black Hole Sun”.

Non a caso ho dedicato un libro al retrogaming e uno, di fatto, alla golden age di grunge, alternative e metal più fosco (e concettualmente stratificato, che non vuol dire un cacchio ma suona benissimo). Come videomaker, vorrei girare per sempre solo “Black Rain”, ma non sono capace e quindi l’influenza gli anni 80 ce l’hanno solo in termini di frustrazione e autocommiserazione prodotta.

Sei un collezionista di oggetti del periodo? Cosa ne pensi di questa mania per l’acquisto di oggetti vintage?
La mania, in sé, produce come sempre mostruosità: prezzi gonfiati, fuffa onnipresente, marchi che fanno a gara per mettere in giro copie di copie di repliche.
Accrocchi orrendi, reboot, remake, requalunquecosa.
Poi c’è, ovvio, la componente più curiosa e museale, il collezionismo intelligente, la voglia di mantenere viva la prospettiva storica in modo comunque ludico, divertito e divertente, che produce confronto e dialogo e attorno al quale si genera una scena culturale florida e interessante. Incontri, convention, manifestazioni, esposizioni, incroci con gente che c’era o che comunque ti ammutolisce con la sua spropositata quantità di nozioni, curiosità, informazioni, aneddoti. Tutto interessantissimo perché permette di scoprire nuove potenzialità mentre si alimenta la memoria. E come dice Carlo Rovelli il tempo macroscopico è la nostra memoria, noi siamo la nostra memoria, noi siamo storie. Per rispondere alla prima domanda, colleziono retrogame e retrocomputer/retroconsole, perché come videogamer faccio pena e quindi compro TUTTO in attesa di trovare qualcosa cui sia in grado di giocare senza crepare costantemente (è la legge dei grandi numeri, baby).
Dall’Amiga ai coin op, seguo un po’ il gusto e cerco di soddisfare i desideri frustrati da bambino. Come il 70% delle persone adulte – se di sesso maschile anche 98%.
Una sorta di crisi di mezza età perpetua.

Anche quest’anno sarai parte degli ospiti di RetroMania80, di cui sei ormai un “veterano”. Raccontaci della tua esperienza.
Ho conosciuto Zap 20 anni fa, su un palco. Io organizzavo, ed ero un metallaro che cercava (senza riuscirci) di fare l’oltranzista. Lui era lì, truccato come Megaloman, che suonava coi Voltage. Prima ho avuto un po’ paura, manco fossi un bivalve di gommapiuma. Poi ho capito: era un musicista tra i più creativi, originali e lucidi che mi fosse capitato di incontrare.
Quando ci siamo ritrovati e mi ha parlato del festival, mi sono fatto coinvolgere più che volentieri, al di là del fatto che stavo promuovendo “Vite infinite”, il libro sui videogiochi. Il punto cruciale era la sua prospettiva: fare un evento retro, nostalgico, che non si limitasse però alla formula ormai esausta del “divertentismo” da discopub, né a radunare gli orfani di un’era ormai andata disposti solo al passatismo più sterile. L’idea era fare cultura, dare uno spessore a contenuti che al resto del mondo parevano solo paccottiglia supersaturata, spalline, synth. Un po’ come quando ci si è resi conto che dietro gli action movie c’era una poetica precisa, che Carpenter non era solo uno bravo coi pupazzi_ c’era un bel po’ di arrosto, dietro quel fumo. Musica, balli, mostre, visual: RetroMania80 è un festival che non si limita a sdoganare, o riproporre: è un festival che discute, propone, potenzia. Ma lo fa in maniera divertente e con i colori fluo.

Cosa butteresti via degli anni 80 e cosa invece vorresti preservare (magari una cosa che si sta dimenticando)?
Butterei via, credo, i prodromi dell’appiattimento della politica giunto a compimento nei vent’anni successivi. Butterei via certe aberrazioni di vestiario, tipo i maledetti jeans a vita alta che io davvero BOH, specie dopo mangiato. E anche un mare di altra roba, mi sa, come certe stantie commedie post-pecorecce prodotte dal cinema italiano e l’eccesso di cotonature.
Recupererei l’intensità sognante, idealista e siderale di Leiji Matsumoto, i monitor a fosfori verdi, l’idea che si possa ballare realmente anche e soprattutto con la valida musica pop. Le pubblicità ingannevoli su Topolino. Gli Amiga e soprattutto la cesura netta tra ciò che è uomo e ciò che è macchina: ho sempre amato l’assenza di ergonomia dei calcolatori, la spigolosa rudezza di ciò che è utensile, benché interfacciato con noi. Mi piacciono le distanze, mi piacciono le differenze: sono uno sprone a colmare gli spazi, a incamminarsi.

Pensi che sia un periodo sopravalutato?
Credo sia stato sottovalutato per molto tempo e che ora sia sopravvalutato per pure ragioni mercantili: siamo nel 1980 2.0, abbiamo Trump al posto di Reagan, abbiamo una pletora di repliche e revival, la cultura nerd nostalgica vende alla grande. Se qualcuno parlò di “me decade” non fu un caso: oggi siamo nel dominio dei social fotografici, dei selfie su Instagram, del self marketing.
Quale decennio, tra i passati, sarebbe più utile per andare a fare scopa con la carta dei ricordi su quella dell’ego? A mio avviso il tempo è ciclico, non esiste un decennio arido, né l’opposto: è questione di prospettive, parametri, località.

Scegli una canzone della decade 80 che non può mancare nella tua playlist.
In tutta sincerità, credo che in ultima analisi gli anni 90 abbiano avuto un peso generale ancora più profondo, su di me.
Ma senza dubbio le canzoni che hanno configurato la mia personalità di amante (profano) della musica sono tutte e tre di quel decennio. “Radio Ga Ga” dei Queen, “The Final Countdown” degli Europe, ma soprattutto il punto zero di un mare di roba a venire, per me: “Invisible Touch” dei Genesis. Con buona pace di chi preferiva Peter Gabriel.

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