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Le Nike e il tennis anni 80

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Nel 1987, guardando per caso la finale di Wimbledon su Telemontecarlo, assistetti a una delle più belle partite di sempre: Pat Cash contro Ivan Lendl.

Cash riuscì a battere Lendl per poi arrampicarsi sugli spalti a baciare la fidanzata, una modella norvegese. Atletico, vincente, ribelle il giusto con la bandana a scacchi e orecchino e accompagnato a una gnoccona, Pat divenne all’istante il mio idolo: deliberai lì per lì che sarei diventato un asso del tennis.

Avrei dovuto iscrivermi a un corso, e anche in fretta essendo già vecchiotto per iniziare; ma tra racchette, campi e maestro, scoprii che il tennis era decisamente fuori portata per le mie tasche. Così optai per una strada meno costosa: guardare altro tennis in tv per imparare dai campioni. Dopo aver studiato le geometrie di Wilander e le discese a rete di Edberg, durante l’inverno mi procurai un tavolo da ping-pong, altro oggetto fuori portata se comprato in negozio ma abbordabile comprando i pezzi da un falegname (oggi è il contrario). In più giocavo, nella semideserta via dove abitavo, partite incandescenti contro il vicino di casa che tirava bombe 100 volte più potenti delle mie.

Cash contro Lendl era più di un match di tennis. Era uno scontro carico di significati simbolici: tutti quelli che si possono immaginare. Tennisticamente, tra il frizzante serve&volley dell’erbivoro Cash e il martellare da fondocampo del terraiolo Lendl. Antropologicamente, tra la personalità istrionica dell’australiano e la freddezza glaciale del ceco. E politicamente, tra la fantasia al potere occidentale e l’ossessiva programmazione del mondo sovietico. Cash contro Lendl era Rocky contro Ivan Drago, l’F-14 contro i Mig di Top Gun: e poco importa che Lendl si fosse trasferito in USA già dal 1981.

Quella era Guerra Fredda, signori.

Poi la cicala Cash vinse in carriera solo quella edizione di Wimbledon, mentre la formica Lendl dominò il decennio con il suo estenuante fraseggio e i tremendi colpi di dritto, fino al declino mentre si accendeva la stella dell’erede ideale di Pat Cash, che non ero io ma André Agassi (la cui storia si rivelò poi essere tutt’altro che allegra, ma insomma).

Quando l’estate successiva arrivò il momento di cambiare le scarpe da ginnastica, visto che il mio piede aveva raggiunto la ragguardevole misura 42, riuscii a convincere mia madre a non comprarle al mercato (evitando il rischio Like) ma nell’unico negozio di articoli sportivi del paese, in cui non ero mai entrato ma di cui correva voce tra gli amici che avesse prezzi da paninaro, quindi assurdamente alti.
Essendo luglio, c’era qualche timido ribasso – i saldi non esistevano ancora – così appena adocchiai tra le altre un paio di Nike “Challenge Court”, non ebbi più occhi per nient’altro. Erano in tela, tutte bianche e col logo piccolino, e c’erano altri modelli ben più appariscenti, ma io volevo quelle.
Sapevo che erano bianche perché all’epoca a Wimbledon erano obbligatorie le buone maniere, l’inchino alla regina e la tenuta total white. Erano bianche, erano da tennis, erano Nike, quindi c’era una sola possibilità: erano le scarpe di Pat Cash.

Costavano, scontate, cinquantaquattromilalire, il doppio di qualunque scarpa da ginnastica avessi mai avuto. Mia madre mi stupì pagando senza battere ciglio, e arrivai a casa in stato di trance. Con le Challenge Court avrei finalmente iniziato il mio avvicinamento al mondo del tennis professionistico, replicando le prodigiose discese a rete di Pat. Le trattai come reliquie, inaugurandole la sera stessa. Era estate, si poteva uscire senza calze e così feci, venendo accolto da un tessuto deliziosamente morbido. Ragazzi, le Challenge Court erano le scarpe più morbide e comode che avessi mai messo. Sarei diventato per forza un campione, non c’era alcun dubbio.

Belle, comode e costose com’erano, non potevo certo usarle per il ping pong e per le partite in strada, quindi in attesa di debuttare su un campo in erba continuai ad usarle solo per sfoggiarle con gli amici e fare ginnastica a scuola.
A fine settembre, la mia vicina di casa che si era presa una cotta per Boris Becker comprò una rivista di tennis che gli aveva dedicato la copertina, e dopo varie insistenze me la prestò da leggere.
Sopra c’era anche una intervista a Pat Cash, che lessi quattro volte. Stranamente, nelle foto Pat vestiva Sergio Tacchini, e non Nike come ricordavo. Ma erano foto dell’U.S. Open, non di Wimbledon, per cui non valevano. Sulla terza di copertina, invece, trovai la pubblicità delle Nike Central Court. “Scoprite perché Chris vince con le Challenge Court”, c’era scritto. E sopra la scritta, una foto di Chris Evert in canotta e gonnellino bianco in azione a Wimbledon.

Le mie Challenge Court erano Nike da tennis, ma non erano le scarpe di Pat Cash. Erano un modello da donna.

Continuai a seguire il tennis in TV, ma quell’attentato alla mia virilità e alla mia autostima mi vietò di continuare a praticarlo. Meno male, devo dire, perché come tennista non sarei andato lontano.

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