Ho ho molti difetti.
Uno di questi è che seguo il calcio.
Certo, non posso definirmi un fanatico nel senso stretto, ma mi piace. Ed avendo per motivi anagrafici la possibilità di scegliere fra due nazionalità, il cuore mi ha spinto fin da bambino ad amare, soffrire e tifare per la nazionale argentina.
Questo ha fatto sì che negli anni ’80 abbia potuto godermi le giocate di quello che è considerato da (quasi) tutti il più grande giocatore di ogni tempo: Diego Armando Maradona.
Quando Maradona scendeva sul terreno di gioco, ragazzi, beh, era proprio tanta roba. Lui era il tocco di genio, l’estro, la rapidità e l’intuizione. Era tecnica e sregolatezza. Aveva una visione di gioco praticamente totale. Giocava per la squadra ma quando capiva che poteva farcela, si affidava al suo intuito e al suo piede sinistro senza bisogno di altro. E il più delle volte aveva ragione lui.
Era capace di tirarsi addosso tutta l’attenzione del pubblico, sia degli ammiratori che dei detrattori.
Tra l’altro, fra gli amici del paesello dove vivevo, ricordo di essere stato uno dei primi ad avere in casa un videoregistratore, che mi permetteva di registrarmi le partite e le giocate del Diego.
E quando decidevamo di trovarci al campetto dietro casa per una partitella, i VHS delle partite dove Maradona giocava erano un ottimo modo per caricarmi a dovere: anche se poi il mio piede sinistro non riusciva a fare le stesse cose del suo. E nemmeno il resto del corpo, se è per questo.
Prima di convincermene definitivamente, però, credo di aver consumato la videocassetta della partita Argentina-Inghilterra del mondiale in Messico del 1986. Quella della “mano de dios”, ma anche quella del gol del secolo. Mandavo avanti fino al minuto giusto, mettevo in play e mi godevo quella giocata, la lunga cavalcata da centrocampo dove uno, due, tre giocatori venivano messi in ridicolo da quel tappetto con la maglia blu. Gli inglesi cadevano come birilli mentre quella scheggia impazzita continuava a correre, fino a saltare il portiere rendendolo ridicolo, il pallone che rotolava lento in porta e il numero dieci albiceleste correre verso la bandierina a festeggiare. Poi tornavo indietro, rivedevo l’azione. Ritornavo ancora indietro e ammiravo ancora. “Andiamo”, mi dicevo, e mi dirigevo al campetto carico e determinato.
Quando nel 1984 Maradona venne comprato dal Napoli, ricordo di aver ricevuto diversi regali dai miei zii a Napoli (la mia parte italiana proviene da lì): una maglietta, una bandiera e la cassetta con la mitica “Maradona è mej e Pelé”. La bandiera è sopravvissuta ed è ancora oggi in mio orgoglioso possesso.
A Diego devo i ricordi più belli legati al calcio. La vittoria dei mondiali nel 1986, la città di Napoli impazzita per il primo scudetto, le azioni e i gol più belli mai visti, la partita Brasile-Argentina vinta ai mondiali italiani del 1990 vista allo stadio Delle Alpi insieme a mio papà, ma anche il rispetto che amici e “avversari” mi mostravano quando si giocava al campetto solo perché ero di origine argentina.
Amata ed odiato in egual misura, Maradona non è mai passato inosservato. È morto e rinato due volte, è ingrassato, dimagrito, ha allenato squadre piccole e la sua nazionale. Ha sostenuto campagne politiche, girato il Sudamerica in treno, e diventato amico di leader politici scomodi e nemico del fisco italiano, è sempre in prima pagina pur non giocando più da venti anni. È stato in galera e in ospedale. Ha abusato di droga e ne è uscito.
Ha incarnato il bene e il male dei nostri tempi e nessun altro ci è riuscito, né prima né dopo di lui.
Ma noi che negli anni ’80 eravamo ragazzini amiamo ricordarlo per le giocate impossibili, al limite della fisica, i gol da centrocampo o dalla bandierina del corner, le punizioni nell’area piccola, il suo essere leader ma anche compagno premuroso. Lo ricordiamo con le maglie della nazionale Argentina e quella del Napoli, che aiutò a portare sul tetto d’Europa.
E nell’era del digitale le videocassette delle sue partite, registrate da bimbetto, le possiedo ancora. Gelosamente.