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Metanolo: la Milano da non bere

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Gli anni della Milano da bere, del Campari e della scalata internazionale dello spumante sono anche gli anni, purtroppo del vino al metanolo.

Uno scandalo che nessuno ha dimenticato e che ha regalato all’Italia una delle nostre poco invidiabili primogeniture, dello stesso filone delle navi da crociera che colano a picco in 20 centimetri d’acqua o dei ponti che crollano per mancata manutenzione.

La faccenda del vino al metanolo non fu a dire il vero dovuta alla superficialità così diffusa nel Belpaese, quanto a dolo vero e proprio.

Fu una famigliola di coltivatori e pigiatori di uve nel cuneese, i Ciravegna, ad avere la brillante idea di usare metanolo al posto dell’alcol etilico o dello zucchero per alzare la gradazione alcolica dei loro vini. La ragione è presto detta: libero da imposte e tasse, il metanolo costava meno (fino a 10 volte meno dell’alcol etilico). Peccato che nelle grandi quantità da loro usate diventi così tossico, ma così tossico da causare danni neurologici gravissimi.

Visto che i simpatici Ciravegna smerciavano i loro prodotti a diverse cantine in tutto il nord Italia (Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna), e che anche altri furbacchioni pensarono di ricorrere allo stesso trucco anche se senza arrivare a dosi letali di metanolo, il bollettino della loro convenienza economica fu drammatico: 23 morti più un numero elevatissimo di intossicati, avvelenati e rovinati per sempre: in 19 rimasero ciechi.

I Carabinieri ci misero poco ad associare la serie di avvelenamenti alle bottiglie di Barbera, e il 18 marzo 1986 partì ufficialmente l’inchiesta della procura di Milano, che in capo a poche settimane ricostruì, verificò, incriminò e arrestò chi andava arrestato. Purtroppo il danno ormai era fatto, e per colpa di pochi furbi ci andò come al solito di mezzo tutta la produzione nazionale: la psicosi da avvelenamento si diffuse in Italia e nei principali mercati europei (giustificata dalla stima di 600.000 litri di vino-killer ancora in circolazione), e dopo anni di crescita il settore perse in pochi mesi tra un terzo e un quarto del suo valore.

Almeno i responsabili avranno pagato, direte voi. Sì e no. Giovanni Ciravegna fu condannato a 14 anni di carcere, che scontò in parte. Non pagò alcun risarcimento alle vittime grazie al fatto di non avere ufficialmente nulla di intestato (sì, era uno dei tantissimi connazionali benestanti, ma nullatenenti).

Le vittime sono ancora in attesa di giustizia, tanto è vero che è nata una associazione. Quello che si può dire è che dopo lo scandalo la serietà dei controlli, la consapevolezza dei consumatori e la qualità dei prodotti enologici in Italia ha dovuto necessariamente fare un passo avanti, di cui beneficiamo ancora oggi.

Questo è l’unico effetto positivo della vicenda, se proprio vogliamo vedere, come dire, il bicchiere mezzo pieno.

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