Fateci caso: spesso, gli artisti più geniali, vengono dipinti sempre come i più “antipatici”. Forse per il loro modo di fare un po’ fuori dagli schemi; forse perché non accettano di piegarsi a convenzioni o compromessi.
Oppure, più semplicemente, perché rimangono sé stessi in un mondo che ci vorrebbe tutti uguali. Nemmeno Lucio Battisti è sfuggito a questa sorta di regola. Certo, il personaggio era quello che era. Timido, schivo, sfuggente. E poi l’Italia è sempre stata “l’Italia”. Un Paese dove vinci solo se appari.
E a Battisti, di apparire, non è mai fregato nulla. Pensate ai “suoi” Anni Ottanta. Gli anni in cui, il cantante laziale, si è limitato a far parlare le sue opere d’arte (perché di quello si tratta) piuttosto che i rotocalchi o le riviste specializzate. Non solo.
Molto probabilmente, la celeberrima libellula in un prato – inseguita dal Lucio nazionale un giorno che aveva rotto col passato – era proprio l’agognata libertà raggiunta nel decennio della spensieratezza. Gli anni del futurismo sfrenato al cospetto del futurista per eccellenza. Insomma, un connubio perfetto. Del resto, basterebbe anche solo ascoltare tutte e dodici le tracce che compongono “E Già”, per capire quanto fosse avanti Battisti.
L’album in questione, pubblicato il 14 settembre del 1982, rappresenta anche il primo lavoro in assoluto senza la collaborazione di Mogol. I testi delle canzoni, infatti, erano firmati da “Velezia”, anagramma di Grazia Letizia Veronese, moglie di Lucio. “E Già” è un lavoro sperimentale, d’avanguardia, un campionario di suoni che ancora oggi, a più di quarant’anni dalla loro pubblicazione, risultano maledettamente moderni. In pratica, Battisti ha portato il synth-pop in un Paese in cui ci si chiedeva ancora chi fossero New Order e Human League. Il sodalizio con Pasquale Panella, invece, inizia nel 1986.
Liriche singolari e piene di doppi sensi, fanno da contraltare alla genialità musicale di Battisti. Poeta, autore, paroliere, Panella mette le sue enigmatiche rime al servizio delle canzoni di uno degli artisti italiani più famosi di sempre. Quel che ne esce fuori, è un album ancora una volta al passo con i tempi. “Don Giovanni” è pieno zeppo di gemme da consegnare alla storia per l’eternità.
Personalmente, quando ascolto “Le Cose Che Pensano”, prima traccia del lotto, non posso fare a meno di viaggiare con la fantasia e di ritrovarmi, magicamente, in posti ed in luoghi a me sconosciuti. Dopotutto, la buona musica, e più in particolare quella di Lucio Battisti, non è altro che un luogo imprecisato dove tempo e spazio non esistono. “Fatti Un Pianto”, altro (bellissimo) pezzo contenuto in “Don Giovanni”, è uno di quei brani in cui la maestria sonora del grande Lucio, si rivela in tutto il suo splendore.
Gli Anni Ottanta di Battisti si concludono con “L’Apparenza”, altro discone indiscutibile ed altra collaborazione con Panella. Ma la vera rivoluzione Ottantiana di Battisti è stata quella di aver dimostrato ai suoi detrattori, che i testi, spesso, non sono altro che un corollario, un mero dettaglio. Piuttosto importante, certo, ma pur sempre un dettaglio. Uno dei più belli scritti da Panella, è proprio quello della già citata “Fatti Un Pianto”. Un verso, in particolare, ha sempre colpito la mia attenzione.
“Batte in me un limone giallo, basta spremerlo.”.
Ecco. In quel rigo c’è tutta la genialissima autoironia (da buona parte della critica, mai capita) di un uomo che nella prima metà degli Anni Ottanta non aveva più nulla da dimostrare a nessuno. Neanche a sé stesso. Lucio Battisti, il più grandi di tutti. E già…