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Intervista di Cyberludus a Ivan Venturi

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ivan venturi

Ivan Venturi, autore e produttore di videogiochi Bolognese del quale vi proponiamo l’intervista apparsa su Cyberludus.

Ivan Venturi e il videogioco: da oltre trent’anni, una passione inossidabile.

Un piccolo spazio di Cyberludus appositamente dedicato agli sviluppatori e alle community di giocatori o modders del panorama videoludico nostrano. Oggi parliamo con Ivan Venturi, storico sviluppatore e cofondatore di Simulmondo.

Il mondo dei videogiochi ieri, oggi e domani. Dopo quasi tre decadi in “prima linea” c’è qualcosa che rimpiangi in particolar modo o che magari ha superato le tue aspettative? Come immagini il futuro del gaming?
Ho cominciato a lavorare in questo mondo praticamente trent’anni fa, pubblicando il mio primo videogioco nel 1987. È proprio in funzione di un arco di tempo così vasto che, forse, la mia visione potrebbe risultare differente dalle altre. In ogni modo, devo dire che tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, con piattaforme quali l’Amiga e il Commodore 64, alcune realtà oggi affermate quali il multiplayer massivo o la VR (così come la intendiamo ora) erano molto difficili di immaginare. Tuttavia, il videogioco è un contenuto che prevede un così forte contatto con l’immaginazione che vi è una naturale non propensione a guardare troppo al futuro. Almeno, per me è così: tendo a concentrarmi di più sul presente o al massimo sull’immediato futuro, onde evitare che i miei videogiochi, sviluppati oggi, risultino “vecchi” a distanza di soli ventiquattro mesi o poco più. Tutto in quest’ambito muta in maniera continuativa, di conseguenza fare previsioni obiettive risulta davvero difficile.

Col passare degli anni, le cose che più mi hanno stupito sono state il cambiamento portato dal mercato digitale (che si è rivelato una bellissima sorpresa) e la comparsa di engines quali Unity e Unreal, capaci di abbassare le barriere d’entrata nella produzione dei videogiochi. Questo cambiamento può essere constatato anche a livello pratico. Pensiamo per esempio alla conversione di un qualsivoglia titolo da una piattaforma all’altra: fino alla settima generazione di console questo procedimento comportava numerose difficoltà. Oggi invece, pur non costituendo un’operazione elementare, è decisamente più semplice. Secondo il medesimo ragionamento, anche un team “piccolo” (ma “sveglio”!) e con una disponibilità economica limitata ha la possibilità di produrre un gioco e arrivare su console, accedendo, se le cose vanno bene, direttamente alle posizioni più alte del mercato.

Penso inoltre che rispetto al non lontano passato il mercato sia notevolmente variato. Per rendersene conto basta pensare ad Apple: quando è stato lanciato il suo store digitale, i primi giochi rilasciati per iOS hanno raggiunto dei “numeri” semplicemente impensabili. E non mi sto affatto riferendo a videogiochi eccessivamente complessi. Di questi tempi, invece, data l’elevata concorrenza, non è più così semplice.
Discorso simile per Steam. Prima dell’arrivo di Greenlight, infatti, raggiungere la pubblicazione era assai complicato. Bisognava trovare un publisher, per cominciare, e non era una cosa da poco. Al giorno d’oggi, invece, in presenza di prodotti qualitativamente discreti e di una valida campagna di comunicazione, la pubblicazione non è un traguardo inarrivabile. Questa situazione ha tuttavia comportato la presenza di un elevatissimo numero di titoli a catalogo, con conseguente aumento della concorrenza.

Anche lo sviluppo su console è divenuto più accessibile che in passato, ma rispetto al PC permangono degli scogli non semplici da superare, quali l’acquisto dei Dev kit e delle certificazioni. Quello console è comunque un mercato fondamentale per gli sviluppatori: tolti i giochi appositamente concepiti per il PC, “approdare” su queste piattaforme è infatti indispensabile per fare “quadrare i conti”. Ciò nonostante, lo spazio non manca, e il videogioco si evolve in fretta. Anche essere originali non è così difficile, data l’eccessiva presenza di tematiche fantasy e sci-fi. Bisogna ricordarsi, però, che bisogna anche divertire.

Cosa è cambiato nel modo di sviluppare videogiochi dagli anni ’80 a oggi?
Tutto. Ai tempi degli 8 Bit, infatti, i “team di sviluppo” erano formati da una singola persona: i miei giochi li sviluppavo da solo. F.1 Manager (del 1989), per esempio, era un titolo molto grosso, con all’interno corse di qualificazione con una componente 3D, il warm up, la gara di stampo manageriale e il management del campionato e della scuderia. Impiegai sette mesi a completarlo, occupandomi di ogni aspetto: grafica, musica, testing e programmazione. Nel complesso i tempi erano più celeri. Coi 16 Bit, invece, lavorare da soli divenne più complicato.

Oggi, da un certo punto di vista, programmare è più semplice: se si vuole aggiungere un elemento, il motore grafico fa tutto automaticamente. D’altro canto, queste incredibili potenzialità hanno reso indispensabili tantissime conoscenze. Ai miei tempi invece era sufficiente studiare adeguatamente la propria “macchina” per mettersi all’opera. Era un approccio più lineare.

E per quanto riguarda i team di sviluppo odierni? Gli approcci lavorativi e i profili professionali richiesti in quest’ambito sono rimasti analoghi al passato o magari le cose sono cambiate radicalmente?
La carne e le ossa di un videogioco sono programmazione e grafica. Più un titolo è piccolo più le competenze necessarie si focalizzano su questi due ambiti, che trent’anni fa erano curati dalla stessa persona. Logicamente anche oggi ci sono persone in grado di occuparsi di più campi (anche in Italia), anche se tutto è divenuto più frammentato. Per intenderci, se sviluppo un gioco in VR cerco persone che abbiano già messo le mani su Vive e Oculus, con esperienze dirette nel campo del 3D. Non qualcuno esperto di Pixel Art. Soffermandoci qualche istante sul comparto grafico, notiamo subito la suddetta settorializzazione: una cosa è lo sculpting, un’altra la modellazione 3D e un’altra ancora il concept art. Abbandonando questo ramo, c’è poi una lunga serie di competenze che diventano specifiche a seconda della grandezza dell’azienda e dei suoi progetti. Pensiamo per esempio a un data manager, o magari a un programmatore server per lo sviluppo di un titolo multiplayer con mondo online persistente.

C’è comunque una forte differenza tra il panorama italiano e quelli anglosassone e americano, nei quali la verticalizzazione delle competenze trova ragione di esistere nelle realtà più massive. Qui da noi, date le aziende più “piccole” (spesso sotto la decina di persone), abbiamo la forte tendenza a essere “artigiani del videogioco” e a puntare su un’organizzazione più agile, con persone che vanno a rivestire più ruoli contemporaneamente.

C’è qualche aneddoto che ricordi con particolare piacere riguardo al tuo periodo con Simulmondo?
È stata una parte importantissima della mia vita e come tutte le cose belle ha avuto una fine. Prima del 1993, momento in cui decisi di andarmene, ho vissuto due-tre anni d’oro, specialmente il periodo che va dalla produzione di “Dylan Dog: Gli Uccisori” fino all’inizio delle edizioni da edicola.

Eravamo tutti poco più che ventenni e, soprattutto, tutti assunti. In questo senso posso dire sia stato l’unico periodo della mia vita da “assunto”, perché altrimenti ho sempre lavorato da solo. Complessivamente eravamo una trentina di persone, tutte talentuose: Riccardo Cangini, Mario Bruscella, Stefano Balzani, Cristian Bazzanini, Ciro Bertinelli… e potrei andare avanti. Il livello era davvero alto. Non c’era nulla che a livello tecnologico non potessimo fare. Avevamo un’età nella quale il divertimento è importante, e spesso capitava di lavorare tutto il giorno per poi andare assieme a ballare, bere una birra o sentire un concerto. In questo senso, Bologna è una città molto accogliente: avevamo trovato una quindicina di posti gratuiti dove andare a divertirci ogni sera, tra musica, bere e “balotta” (chiacchierare, conoscere gente in “bolognese”).

Stavamo lavorando a dei bei progetti, quali Dylan Dog, 1000 Miglia e tutti i manageriali sportivi. Eravamo nel pieno delle nostre potenzialità. Di solito si comincia a pensare concretamente di sviluppare videogiochi intorno ai quindici, sedici anni, per poi ritrovarsi nel bel mezzo della carriera lavorativa tra i venti e i venticinque. Credo fermamente che fare videogiochi sia prima di tutto una bella avventura. E a essere fondamentale è il “come” quest’avventura viene vissuta: bisogna incontrare persone interessanti, prendere aerei e fare ciò che piace, in modo da poter dare forma a ciò che si ha dentro. Penso sia importante avere un “tetto comune” sulla testa, non essere soli e isolati. A questo proposito, mi vengono in mente eventi come lo Svilupparty e il Pong. Ecco i luoghi dove incontrarsi, dove nasce tutto, le connessioni e le “situazioni”. I ragazzi si incontrano, si conoscono e… sviluppano videogiochi.
È un’avventura. È passione, la stessa di cui noi sviluppatori ci nutriamo per poi restituirla ai giocatori. Vivere le cose in un certo modo, in quest’ambito, non si limita a essere un fatto di soldi o mercato: è una questione di cultura e di riuscire a divenire protagonisti di un periodo. In questo senso, Simulmondo ha avuto dei momenti meravigliosi.

Quale è la tua opinione sull’attuale panorama videoludico italiano? Sei soddisfatto di quanto visto finora o ritieni si possa fare di più?
La situazione, rispetto a quattro o cinque anni fa, è enormemente migliorata: tutti all’estero si sono accorti del numero crescente di progetti italiani e della “nostra” presenza alle fiere e alle conventions. E non dimentichiamoci che molte aziende, pur senza fare troppa pubblicità e con poca attenzione all’aspetto “social”, pubblicano. Penso a redBit di Roma, che ha appena rilasciato un bel gioco per mobile che si chiama Pocket Rush. O a Rortos, team di Verona specializzato in simulatori di volo per mobile. Due esempi che ci fanno capire come tante realtà, pur non in bella mostra, siano riuscite a ritagliarsi il proprio spazio.

Difettiamo ancora un po’ a livello di publishers. Ne abbiamo pochi in Italia, un centesimo di quanti ce ne sono in U.K, e dobbiamo rimediare perché ci serve gente in grado di portare le software house sul mercato. Anche a livello di formazione siamo indietro, soprattutto se facciamo un paragone con gli Stati Uniti. Ma qualcosa si sta muovendo: iMasterArt, per esempio, eroga dei corsi per concept artists ed environment artists. Si tratta di offerte molto specifiche, in “stile master”, con corsi suddivisi in moduli. A questo proposito, devo dire che spesso gli sviluppatori tendono a sottovalutare l’importanza di un’adeguata preparazione: molti giovani, infatti, con due sole giornate di corso potrebbero evitare interi mesi di problemi. Eppure, se per tanti altri ambiti la frequentazione di master e corsi di aggiornamento è una realtà consolidata, nel nostro campo non è così.

Un ulteriore problema riguarda poi i finanziamenti: il credito di impresa per i videogiochi è molto difficile da reperire, e spesso è più facile ottenere finanziamenti per un’impresa high-tech che per la creazione di un gioco. Tuttavia anche in questo caso stiamo facendo dei passi avanti.

Che tipo di videogiocatore sei?
A dire il vero non gioco molto. Oltre che al mio lavoro dedico il tempo ad attività di altro genere, tra famiglia e vita di tutti i giorni. Devo però ammettere di non essere stato un grande giocatore neanche in passato: ho sempre preferito crearli, i videogiochi. E comunque sono una “schiappa”. Ho (quasi) sempre perso, anche nei videogiochi che facevo io!

Posso dire però di avere un debole per la VR. Potenzialmente, qualsiasi gioco esplorativo dotato di questa tecnologia può appassionarmi. Quando li abbiamo pubblicati su Steam ho giocato molto a Yon Paradox, Mind Unleashed, Stealth Labyrinth e Insane Decay of Mind. Inoltre, mi piace moltissimo Elite Dangerous: prima o poi riuscirò ad avere il tempo sufficiente per scomparire nello spazio almeno un paio di notti la settimana. E anche per dedicare un angolo di casa a una postazione VR “superbombata”!

“Vita di Videogiochi” – Memorie a 8 bit. Ti andrebbe di raccontarci qualcosa a proposito del tuo libro?

L’idea è nata più di un anno fa, quando la folta community del Commodore 64, su un gruppo Facebook, mi chiese con insistenza di scrivere un libro. Non è stato possibile dire di no.

Si è rivelata un’occasione perfetta per “fare il punto” su quei meravigliosi “anni videoludici”. Ho dunque rimesso assieme l’intera storia, risentendo colleghi, amici e concorrenti. Si parte dagli anni ’70 con l’arrivo dei videogiochi in tutto il paese e negli “oscuri” bar di Bologna. È proprio allora che cominciai a sognare di crearli. E poi l’acquisto del Commodore 64, le prime avventure testuali, l’incontro con Francesco Carlà e la nascita di Simulmondo. Ho avuto la fortuna di essere nel posto giusto al momento giusto, assistendo alla nascita dei videogiochi in Italia, e questo è il racconto di quegli anni vissuti in prima persona.

ivan venturi e vita di videogiochi
ivan venturi e vita di videogiochi

“Vita di Videogiochi” è un libro particolare anche per i suoi metodi di distribuzione. Non è in vendita, non si trova in libreria: per stampare la prima edizione ho infatti effettuato un crowdfunding, e quindi una specie di preordine. È stata proprio questa metodologia a garantire la sostenibilità della cosa. Tutte le 175 copie sono state spedite, con tanto di dediche e disegni, e ora è in ristampa una versione “Extended play” con sedici pagine extra e ulteriori contenuti.
È stata una sorpresa, e un’attività della quale sinceramente voglio continuare a occuparmi in ambito privato, con la medesima esclusività finora tanto apprezzata. In questo senso, posso dire di conoscere direttamente ogni persona che ha richiesto il libro. Si è anche formata una community davvero interessante con la quale interagisco ogni giorno: tutti insieme condividiamo la stessa inalterabile passione. Ancora oggi, infatti, di fronte a un’immagine di Impossible Mission per Commodore 64, non posso che avere un tuffo al cuore.

Che progetti hai per il futuro?
Sto avviando i progetti che seguirò per il prossimo biennio, ma è ancora troppo presto per parlarne. Per quanto riguarda i lavori attuali, al Lucca Comics ci sarà “Nostradamus – I Quattro Cavalieri dell’Apocalisse” (sviluppato con Just Funny Games), mentre all’inizio dell’anno pubblicheremo RIOT – Civil Unrest.

Intervista di Alberto Surano

ivan venturi
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