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Spagna 1982. I quarant’anni del mondiale della nostra meglio gioventú. (2 parte)

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Spagna 1982
Italia vs Olimpo

Mentre noi ancora non credevamo vero di aver battuto 2 a 1 i campioni del mondo in carica, il Brasile si sbarazza della stessa povera Argentina (che tanto ci aveva fatto penare) con un secco 3-1.

Partita nella quale, tra l’altro, Diego fu espulso per aver cercato di farsi giustizia da solo abbandonando in anticipo il campo ed il mondiale.

I giorni passavano lentissimi, ma alla fine le stelle si allinearono, e giunse il fatidico 5 luglio 1982.

Giosué, come avvenne mentre stava combattendo contro gli Amorrei, chiese al sole di fermarsi sul Sarriá di Barcellona, quel lunedí 5 luglio 1982. Ed il sole si fermó. Esattamente alle ore 17.15.

La Dea Eupalla, aveva deciso di organizzare una disfida tra undici ragazzi italiani.. raccattati qua e lá lungo lo stivale da un cocciuto friulano.
Arrivavano da tutto lo stivale; da Subiaco, da Settala, da Nettuno, da Careggine, da Prato, da Mariano del Friuli..

Si trattava di uno scontro estetico prima ancora che filosofico.

La bellezza del joga bonito, contro la testuggine dei legionari dell’antica Roma.
Il sogno di Icaro, contro il labirinto tattico di Minosse.
Un calcio a passo di samba, in punta di tacchetti, contro le pedate e gli scarpini bullonati di un futbol senza fronzoli.

“L’Italia con gli occhi asciutti nella notte scura,
viva l’Italia, l’Italia che non ha paura.”

cantava Francesco de Gregori il suo inno: “Viva L´Italia”.

E per un pomeriggio almeno, l’italia che non ha paura si mise di fronte ai propri teleschermi per assistere a questa battaglia dei due mondi. I buoni contro i cattivi.

Ma se per i milioni di telespettatori in giro per il mondo, i “buoni“ erano gli artisti in maglia color oro, per noi – almeno (o solo) per noi italiani – i “buoni“ erano i ragazzi in maglia azzurra. La nostra meglio gioventú.

L’unica frase che i giornalisti riuscirono a scucire al Ct Enzo Bearzot fu: «Primo: non prenderle! Secondo: è imperativo, vincere. Terzo: non c’è un terzo punto perché i primi due han già detto tutto.»

Cosí farfuglió il vecio, a labbra semichiuse… semichiuse come chiusa era la nostra difesa: “ZoffGentileCabriniOrialiCollovatiScirea“. Da pronunciare tutto d’un fiato. Come fosse un nome unico. Da scandire come una orazione, un Padrenostro, prima di una prova difficile, prima di una battaglia. O prima di una partita di calcio.

Lo sguardo dei cattivi (o dei buoni) verdeoro era lo sguardo di chi se ne infischiava del vantaggio in classifica. Erano primi, con una migliore differenza reti. Quindi anche in caso di pareggio, sarebbero passati loro.

Ma Zico non pareggia… Zico vince. Socrates, il dottore, quello che studiava Gramsci in italiano, quello della Democracia Corinthiana, non pareggia. Né nel campo di gioco né nella vita. Il pareggio non fa parte del suo mondo.

E neppure del mondo di Eder, che con i suoi missili terra aria, non cerca la soluzione comoda ma la traiettoria impossibile per i portieri avversari.
Nelle vene di Falcao scorre il DNA della vittoria, non del pareggio.

Quello del 1982, era un Brasile che era a digiuno da una vittoria nel campionato mondiale da oramai troppo tempo.
L’ultimo trionfo mondiale, infatti, datava 1970. Ed era avvenuto in uno stadio di Cittá del Messico; lo Stadio Azteca.

Grazie a quella vittoria, il Brasile, quello di Pelé, portato in trionfo dai suoi, portó a casa a titolo definitivo la Coppa Rimet. Neppure quella squadra, quella che era anche la squadra di Rivelino, di Tostão, di Carlos Alberto, di Gerson, conosceva il pareggio. Ed a farne le spese, in quella finale, fu un’altro manipolo di ragazzi in maglia azzurra.

Sin dai primi tocchi, la palla sembrava ipnotizzata dalle carezze degli scarpini dei brasiliani. La palla era forse rotonda, ma pareva non ci fossero dubbi su quale fosse il suo destino. Ovvero in quale delle due porte si sarebbe morbidamente infilata, rotolando come mossa dal volere dagli Dei dell’Olimpo del Calcio.

In un momento di distrazione degli dei, un ragazzo di Cremona diede una ruvida pedata alla palla, che attraversó una fetta di cielo e raggiunse la capoccia di un altro ragazzo italiano.

Uno che aveva passato due anni lontani dai campi di calcio per una brutta storia, una squalifica, ma che era salito – come ultimo della comitiva – appena in tempo sul treno del destino.

E ci era salito proprio per arrivare puntuale su quel cross e spingere di testa la palla alle spalle di quello che tra tutte le statue divine sembrava la meno divina: Valdir Peres, portiere del São Paulo oltre che degli undici verdeoro.

Sullo 0-1 per l´italia, gli dei si svegliarono dal torpore.

Zico dopo essersi liberato della marcatura di Gentile (non sarebbe successo molte altre volte nel corso dell’incontro) lesse una poesia sul calcio a Socrates, che portó avanti la palla e – come sempre – puntó a sinitra (questa volta era la sinistra di Zoff) e mise la palla tra il piedone del friulano ed il palo.

1 a 1. Ma il lavoro degli Dei non era terminato. Era solo a metá.

La sinfonia di archi e violini non stava procedendo esattamente come avrebbero gradito le orecchie degli spettatori assiepati sulle nubi dell’Olimpo.

C’era sempre qualche giovanotto sudato, in maglietta azzurra e stemma tricolore sul petto, ad interrompere un fraseggio, a rovinare con una nota stonata una dolce melodia brasileña.

E, colmo dei colmi, quando Cerezo stava per accarezzare una corda del suo archetto e dar vita ad un suono meraviglioso, lo stesso esile giovanotto di Prato che aveva segnato l’1 a 0, decise di inserirsi fra le note del pentagramma carioca, e – come un elefante in un negozio di cristalli – frantumare la vetrina calciando con inaudita violenza la palla, che – anch’essa stordita – si ritrovó in fondo alla rete brasiliana.

Il sipario del primo tempo si abbassó. Gli dei dell´Olimpo erano increduli, pensando ad uno scherzo dei soliti incorreggibili umani.

https://www.youtube.com/watch?v=fser8knw8Ws

Dopo 15 minuti, si riaccesero le luci sul palco; umani e semidei tornano sul palcoscenico per dar vita al secondo atto della rappresentazione poetico-calcistico messa in scena all’anfiteatro del Sarriá.

Gli eroi in divisa gialla spostano il baricentro del loro gioco in avanti. Anzi… ancora piú in avanti di quanto non avessero fatto nel primo tempo.
Furono peró ancora i mortali a cercare di creare la prima buona occasione del secondo tempo. Fu un nulla di fatto…la palla si perse a lato… ma il pericolo serví ai semidei a rimettersi a macinare gioco.

Paulo Roberto Falcão, da Xanxere, nello stato di Santa Catarina, era una divinitá greca, ma naturalizzata romana. Con un passo di danza appreso forse su di uno dei carri del Carnevale carioca che tanto amava, fintó un passaggio a Toninho Cerezo (anch’egli divinitá che da greca divenne romana) e si spostó la palla verso al centro dell’area.

Si trattava di una delle piú celebri figure retoriche della commedia greca; l´inganno. Tre italioti caddero nel tranello e seguirono il movimento del giocatore senza palla, spalancando cosí lo specchio della porta di Dino Zoff al divo Paulo Roberto, che calció il pallone in fondo alla rete.

Semidei 2 umani 2. Semidei qualificati per la semifinale.

Era ancora il minuto ’68. Oppure era giá il minuto 68?

Ci saremmo a questo punto aspettati che il gioco del Brasile si facesse piú guardingo. Trincee, camicie rosse garibaldine grondanti di sangue, elmetti, sacchi di sabbia.
Invece, i semidei, ancora imbufaliti per la sfacciataggine dimostrata dagli umani, cercavano di ristabilire l’equlibrio cosmico e ricordare a quel manipolo di manigoldi, da che parte stava la Via, la Vita e la Veritá. Cercavano cioé la vittoria. Chiara ed indiscutibile.

Noi purtroppo siamo nella peggiore delle situazioni possibili; dovremmo buttarci in avanti, tentare il tutto per tutto… Che avevamo da perdere?

Ma si sa come siamo fatti: anche se non abbiamo piú nulla da perdere, non riusciamo proprio a rischiare il tutto per tutto. E’ piú forte di noi…

Di nuovo, forse per il gran caldo, gli Dei dell’Olimpo si distraggono. Toninho Cerezo sbaglia un retropassaggio di testa, e concede ai ragazzi di Bearzot l’unico calcio d´angolo della partita.

Il piú brasiliano dei nostri, Bruno Conti, mette in mezzo all’area una palla beffarda e sfrontata. Nel tentativo allontanarla, Oscar e Socrates, entrambi indignati per quel tentativo goffo degli Azzurri di creare dei pericoli, si ostacolarono a vicenda e la sfera, confusa e un pó disorientata, rotoló sui piedi di Marco Tardelli che la scaraventó in direzione della porta brasiliana.

Paolo – o come dicevan tutti Pablito – Rossi di nuovo si frappose tra il pallone ed la sua traiettoria naturale. Devió la corsa della palla e di nuovo Valdir Peres la dovette raccogliere con i suoi guantoni nel fondo della rete.

Olimpo 2 mortali 3.

Minuto 74…
Nereo Rocco (altro furlán) aveva battezzato il 75 minuto: “l’ora della mona“. Volendo significare che si tratta di un momento della partita estremamente delicato.

Subire un goal a 15 minuti dalla fine galvanizza chi lo segna e deprime chi lo subisce, lasciando poco tempo per eventuali rincorse. Certo non era il calcio veloce di oggi, giocato fino all’ultimo secondo del tempo effettivo. Per meglio dire, il tempo effettivo, non esisteva.

Al minuto 75, dunque, l’ora della mona, semidei a casa, Italia in semifinale.

A 180 secondi dalla fine della partita, segnamo quello che sarebbe stato un goal regolarissimo oltre che un toccasana per le nostre coronarie.

Ma l’arbitro signor Klein, nato a Timisoara, terra di vampiri, non se la sentí di convalidare l’ennesimo affronto alle divinitá trepidanti che assistevano allo spettacolo dall’alto del cielo dell’Olimpo. Il soggetto della rappresentazione, peró, non era piú quello della commedia, bensí quello della tragedia!

A 60 secondi dal fischio finale, un cross raggiunge le nostre barricate.

José Oscar Bernardi, detto Oscar, salta píu alto di tutti e la schiaccia di testa in direzione della porta difesa da Dino Zoff.
Ma gli Dei, come detto, non pareggiano. Per loro é vita o é morte.

La torcida gialloverde stava giá esultando per l’inevitabile pareggio… ed il pianeta trattenne il fiato per alcuni infiniti istanti. La palla la aveva inchiodata alla linea bianca il portierone friulano. Nulla di fatto.

Il triplice fischio finale, decreta la sentenza inappellabile. Brasile 2 Italia 3.

Viva l’Italia, l’Italia che lavora,
l’Italia che si dispera, l’Italia che si innamora,
l’Italia metà dovere e metà fortuna,
viva l’Italia, l’Italia sulla luna.

Eh giá!
Alla fine di quel torrido pomeriggio di Barcellona, agli dei (o ai semidei) toccó di stare sulla terra a vivere la tragedia collettiva del Sarriá, il loro nuovo maracanazo.
La nostra meglio gioventú, invece, salí sulla luna.

Come puó uno scoglio…

…arginare il mare?

Gli Azzurri oramai erano un mare. Un Mare azzurro incontenibile ed i nostri tifosi, si erano scatenati in mille caroselli e sventolando milioni di bandiere in ogniuna delle cento cittá d’Italia.

Unico scoglio tra noi e la finale, una partita da giocare contro la Polonia. La stessa squadra contro cui avevamo patito a Vigo. Ma vista dalla luna, da dove eravamo volati tutti quanti. La Polonia pareva uno scoglio piccolissimo.
Oramai eravamo invincibili, o per lo meno cosí ci sentivamo.

Pablito non era piú l’imbucato del gruppo, il fantasma che si aggirava per gli stadi di calcio di Vigo. Ed il mister non era piú un vecchio friulano ostinato, ma il Re Leonida che aveva condotto trecento valorosi a sconfiggere l´esercito persiano.

Ad onor del vero, poi, la Polonia gioca senza la loro stella, Boniek. Spuntando di fatto l’attacco biancorosso.
Giá la Polonia. Dopo aver vinto il girone di Vigo, si qualificó per la semifinale contro di noi, rifilando un sonoro 3 a 0 al Belgio e pareggiando a reti inviolate contro l’Unione Sovietica. Sulla carta, quindi, non un avversario morbido.

Era peró cresciuta la consepevolezza nei nostri mezzi. Punti deboli, ma anche punti di forza.
Eravamo quelli che avevano battuto i semidei. Eravamo una delle quattro nazionali, insieme a Polonia, Germania, Francia e Germania Ovest, che avrebbero ambito al titolo di Campione del Mondo.

E giunse il giorno di Italia – Polonia. Questa volta nello stadio figo. Il Nou Camp.
Ed al Nou Camp, quell’8 di luglio 1982, in campo ci fu solo l´Italia.

Dall’inno di Mameli in poi, in campo e sugli spalti, fu un monologo azzurro.

Adesso i buoni siamo noi. Siamo noi i mortali assurti a semidei.

Dopo venti minuti, sebbene ostacolati da un gioco piuttosto ruvido dei polacchi, ci portiamo in vantaggio. La punizione di Antognoni viene prima sforata di testa da Cabrini e poi corretta in rete da Pablito, che è in un tale stato di grazia che segnerebbe anche se legato con corde e funi ed immerso sott´acqua tipo Hudiní.

E non importa se al minuto 43 del primo tempo, un centrocampista polacco, Kupcewicz, coglie in pieno il palo con una punizione battuta a sorpresa dalla trequarti (ah.. Dino. Quei tiri da lontano…).
Quasi goal.
Ma avevamo adesso noi il favore degli Dei. Che si erano innamorati di Pablito, della maglia Azzurro cielo e del destino della meglio gioventú italiana del 1982.

Il secondo tempo segue lo stesso canovaccio del primo. Sappiamo, sentiamo, che prima o poi il goal sarebbe arrivato. Ed arrivó al minuto 72. Cross di Conti sul secondo palo.

Pablito rende omaggio ai suoi numi protettori, agli Dei che adesso ci guardano con benevolenza. Si inginocchia per ringraziarli (5 reti in 2 partite) e con la testa deposita la palla in rete. Era un Tango… nel senso di pallone (olé).

Peccato per l’infortunio di Antognoni. Forse fu l’obolo che dovemmo pagare agli Dei per permetterci di spalancare le porte di Madrid. Le porte de la “Capital del Imperio“! Del tempio pagano del Dio Calcio: il Santiago Bernabeu.
La finalissima.

I nostri avversari

Come nei migliori racconti epici, il nostro avversario non era un avversario, ma “L’AVVERSARIO“.
Nello sport esistono rivalitá, piú o meno accese. Esiste la tradizione, la storia. I vecchi rancori. Il rispetto, il timore.
E poi esiste Italia Germania.

Non esiste partita, nella storia del calcio, che si possa associare ad un risultato. Perché per definizione il risulato non si scrive mai prima dell´incontro.
Ma nel caso di Italia Germania; si! Esiste! Ed é: “Italia Germania Quattro a Tre“.

É il titolo di un film, é una figura retorica scolpita nella memoria collettiva degli amanti di questo sport, é la Partita del Secolo, celebrata con targa scolpita nel bronzo all’ingresso del monumentale Stadio Azteca di Cittá del Messico.

Si tratta di due Weltanschauung opposte…ma che si complementano. Un ying ed un yang eterno. La pianificazione contro l´improvvisazione. L´ordine delle cose e il calcolo, contrapposto al disordine ed al caos da dove scaturisce la creativitá.

“Bisogna avere dentro di sé in caos, per partorire una stella che danzi…“
F. Nietzsche.

Uno che pur essendo nato a Röcken, Prussia, amava disperatamente l’Italia.

Dopo aver regolato i conti con gli Dei dell’Olimpo, rimaneva un ultimo passo da compiere. Ristabilire l´ordine delle cose.

Chi avrebbe avuto la meglio, questa volta, tra l’ordine e il caos?

Il verdetto finale, il duello che non avrebbe avuto appelli aveva peró un luogo, una data ed una ora precisa per essere celebrato: Madrid, Stadio Santiago Bernabeu.

Domenica 11 luglio 1982.
Il fischio di inizio alle ore 20. Arbitro dell’incontro, Arnaldo César Coelho, di Rio de Janeiro.

Un leggero brivido; avevamo appena creato un lutto nazionale in Brasile… ed ora un figlio della nazione carioca avrebbe deciso le sorti dell´incontro tra noi ed i tedeschi. Pare che la designazione l’avesse fortemente caldeggiata, a mó di risarcimento, il presidente della FIFA. João Havelange. Carioca come Coelho.

Alla fine gli Dei dell’Olimpo (e quelli della FIFA) avrebbero avuto la soddisfazione di vedere almeno un brasiliano in campo la notte della finale della Coppa del Mondo.

Il cammino della Germania

Del nostro tribolato ed avventuroso cammino abbiamo giá detto tutto, o quasi.
Del cammino dei nostri avversari nella finale mondiale, un paio di cose sarebbe interessante dirle.

Se noi abbiamo iniziato con uno stentato 0-0 contro i polacchi, sorte peggiore toccó ai tedeschi sconfitti 2 a 1 dall’Algeria….non certo da una corazzata invincibile.
Rabaj Madjer, il tacco di Allah, e Lakhdar Belloumi, pallone d’oro africano 1981, decretarono una sconfitta storica per i tedeschi occidentali nella loro partita inaugurale. A nulla serví il temporaneo pareggio di Karl Heinz Rummenigge.

Oltre alla Germania Ovest ed alle “volpi del deserto“, il girone comprendeva anche il Cile, che non raccolse neppure un punto, ed i fratelli minori dei tedeschi: gli austriaci.

L’Algeria aveva eccellenti possibilitá di qualificarsi, grazie alla vittoria per 2 a 1 ottenuta appunto sui tedeschi, ed un 3-2 rifilato ai cileni. Un bottino di ben quattro punti (contro gli austriaci persero infatti 2-0).

L’ultima partita del girone fu Germania Ovest-Austria. Per potersi qualificare entrambe, la Germania davrebbe dovuto vincere, ma con un solo goal di scarto, per non compromettere la qualificazione dell’Austria.

La partita passó alla storia come il “patto di non belligeranza di Gijón“. Rete di Hrubesch per i tedeschi al 10 minuto del primo tempo, ed insopportabile melina durante i restanti 80 minuti. Risultato finale 1 a 0. Ed i fratelli di lingua tedesca qualificati a spese della nazionale africana.

Una combine simile a quella avvenuta quattro anni prima tra Argentina e Peru. E che fece decidere ai dirigenti FIFA di far giocare in contemporanea le ultime partite delle qualificazioni, per evitare risultati di comodo.

Pur non brillando, i tedeschi superarono anche il secondo turno grazie ad uno zero a zero contro l´inghilterra (arbitro: Coelho!) ed una vittoria 2 a 1 contro i padroni di casa (arbitro l´ italiano Casarin).

L’inghilterra per sperare di qualificarsi doveva a sua volta sconfiggere la nazionale anfitriona del torneo con almeno due goal di scarto. Ma i diavoli rossi non potevano essere di nuovo sconfitti di fronte al proprio pubblico e giocarono una partita di grande orgoglio, che terminó 0 a 0.
Dopo il “biscotto“ di Gijón, un nuovo regalo del destino. Sará che i tedeschi avevano, forse, terminato il loro credito nei confronti degli Dei del Calcio?

Non esattamente.

La Notte di Siviglia

La loro semifinale sarebbe stata una delle piú avvincenti ed insieme rocambolesche di sempre: Germania Ovest-Francia. La Notte di Siviglia!

Un confronto, anche questo, dai contorni epici e drammatici, fatti di memoria di guerre, di trincee, di milioni di morti su entrambi i fronti.
Per fortuna questa volta si trattava (solo) di una partita di pallone: il calcio champagne del quadrato magico francese (Platini, Tigana, Genghini, Giresse) contro la determinazione e la fisicitá tedesca.

Vantaggio tedesco; Pierre Littbarski (un berlinese con nome francese) ribatte in rete una respinta del portiere.
In genere, i tedeschi sanno difendere il vantaggio. Giochi fatti? Non proprio.. la partita aveva in serbo ben altro svolgimento e ben altro finale.

Una plateale trattenuta di Försgter su Rocheteau fu sanzionata con un calcio di rigore (e non sará l´ultimo penalty dell´incontro!).
Platiní va sul dischetto… pallone a destra, portiere a sinistra 1 a 1.
Mentre ancora si era ai tempi regolamentari, la Francia colpí una traversa con Amoros. Pareggiando quella colpita da Littbarski ad inizio incontro. Anche il conteggio dei legni quindi si chiude in paritá.

Ma l’episodio piú drammatico dell´incontro sarebbe avvenuto nel secondo tempo; violento scontro tra il portiere Schumacher, in uscita assassina, ed il francese Battiston (lanciato da Platini). Impatto che costó al francese la rottura di due denti e l´incrinatura di un paio di vertebre.
In risposta a tutto ció, il portiere tedesco pensó bene di fare esercizi di stretching davanti ai tifosi transalpini.

Nel secondo tempo non accadde molto e la partita si trascinó fino ai tempi supplementari. Quando successe tutto.

La Francia si portó sul 3-1 grazie a Tresor e Giresse rispettivamente al minuto 92 e 98. Una combinazione destro-sinistro che avrebbe messo ko qualsiasi pugile. Ma non i tedeschi.
Quando a Parigi erano giá pronte le casse di champagne per festeggiare la vittoria e l’accesso alla finale, un goal di Rummenigge al 102° e poi di Fischer in rovesciata fissarono il punteggio finale dell´incontro su di un rocambolesco 3 a 3.
La drammativa lotteria dei rigori decise che sarebbero stati i tedeschi occidentali a sfidarci, l’11 luglio 1982 a Madrid.
Fu la prima partita dei campionati mondiali terminata ai calci di rigore.

Adesso si, i giochi erano fatti. La finale decisa: Italia – Germania Ovest.

E cosí sia.

… siam pronti alla morte l’Italia chiamó! Sí!

Tensione alle stelle. Una domenica bestiale, quella dell’11 luglio 1982; sospesa tra l´ansia, la voglia che la partita iniziasse giá, i riti e le scaramanzie.

Piani formidabili per la serata píu importante; che fossimo a casa o al mare, ai monti o in collina, l´importante era assicurarsi ciascuno il proprio posto al sole, di fronte ad un tubo catodico collegato con lo stadio Santiago Bernabeu di Madrid.
Dove stavano assiepati 90.000 tra italiani, tedeschi e spagnoli.

La jattura che tenne i “tennici“ dei Bar Sport di tutto lo stivale in viva apprensione, fu quella di non poter contare sulla fantasia e la brillantezza in attacco di Giancarlo Antognoni, che contro la tenace compattezza teutonica ci sarebbe servita come il pane. L´infortunio rimediato contro i polacchi ci privava di una pedina importante per lanciare ed ispirare Pablito…

Il vécio, Bearzot, ovviamente si guardó bene dal sostituire un centrocampista con un altro centrocampista. Preferendo infoltire i ranghi della nostra retroguardia.

Come spesso accade, ci temevamo a vicenda.
Noi ci pesentammo al rito della fotografia pre-partita con una formazione che potremmo eufemisticamente prudente ed attenta alla fase difensiva:

Dino Zoff in porta.

In difesa:

Beppe Bergomi un diciottenne con i baffi per sembrare piú grande e cattivo, ed al quale fu affidato il compito di disinnescare – e lo fece splendidamente – il suo futuro compagno di squadra K.H. Rummenigge

Claudio Gentile rientrato dalla squalifica di 1 giornata (scontata contro la Polonia) a causa dei cartellini (gialli) rimediati durante le operazioni di controllo delle caviglie di Maradona e la maglietta (strappata) di Zico.

Il suo incarico quello di neutralizzare la vivacitá di Litbarski che tanti danni aveva creato ai poveri francesi. Incarico che svolgerá alla grande.
Antonio Cabrini, cui spettava il compito di marcare Kaltz e provare a spingersi in avanti.
Fulvio Collovati, che ridusse Fischer ad un anonimo attaccante da dopolavoro ferroviario della Stazione di Lindberg)

Lele Oriali su Dremmler e Marco Tardelli a controllare Paul Breitner.
Piú ovviamente Gaetano Scirea, libero – ça va sans dire – da marcature fisse.
In pratica: 8 difensori..
Lá davanti, a cercare di sfruttare il contropiede, Bruno Conti sulla fascia, Ciccio Graziani e Pablito Rossi.

La nostra meglio gioventú provava a cingere la testa dell’Elmo di Scipio.
Come puó e come sa; difendendosi e poi sorprendendo il nemico in contropiede.
Perché cosi siamo noi; cerchiamo di ottenere il massimo con le carte che il fato ci mette tra le mani.

E quando alle ore 20 l’arbitro brasiliano fischió il calcio di inizio, svanirono sogni, chimere, paure e desideri. C´era spazio solo per una partita da giocare. E da vincere.

Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò!

“Calcio di inizio degli italiani, che giocano alla destra dei nostri teleschermi“
Furono le prime parole dell´incontro pronunciate dal telecronista dell´incontro, Nando Martellini.

Non iniziano però molto bene le cose per noi. Al minuto 7 si fa male Ciccio Graziani, uno dei nostri 2 attaccanti.
Subentra Spillo Altobelli, che con un nomignolo cosí, certo non fa pensare che avrebbe fatto a sportellate con i vari marcantoni tedesci del calibro di Briegel o Stielike… ma tant’è.

I tedeschi non sembrano brillanti; anzi. Soffocati dal nostro Santo Protettore (il catenaccio), non riescono a distendersi, non creano praticamente nulla.
Anzi siamo noi che grazie ad un lancio di Altobelli a favore di Conti, steso senza troppi complimenti da Briegel, abbiamo l´opportunitá d´oro di andare in vantaggio.
Ma Antonio Cabrini da Cremona, incaricato di battere il rigore assegnato da Coelho, pare cambiare idea all´ultimo momento. Angola troppo il suo mancino e la palla sfila sul fondo, alla sinistra del portiere Schumacher. Si resta quindi sullo zero a zero.

Facile immaginare quali fossero stati in quel momento i cupi pensamenti (e forse anche qualche parolina rivolta ai Santi del Paradiso) di quel vecchio partigiano in tribuna, che contro i tedeschi ci aveva pure fatto una guerra, e che masticava nervosamente la sua pipa di fianco al Re di Spagna; Sandro Pertini. Il Presidente.

Si va a riposo a reti inviolate. Al rientro in campo, i tedeschi sembrano piú sicuri ed arrembanti ma noi non diamo l´impressione di poter soffrire piú di tanto.
Anzi…
Al minuto 12 della ripresa, battiamo rapidamente una punizione sulla trequarti. Palla a Gentile che scodella in mezzo. Ci tuffiamo in tre o quattro in mezzo all’area tedesca. Non ci arriva Oriali, sta quasi per sfiorarla Cabrini ma alla fine è Pablito che incorna e ci portiamo sull’1 a 0.

Il cuore in tumulto. La nostra meglio gioventú sta battendo la Onnipotente corazzata tedesca.

Adesso ci sentiamo davvero forti e sicuri. Andiamo a fare torello nella loro area.
Scirea di tacco per Gentile, che la ripassa a Scirea, che la serve a Tardelli.
Marco si accomoda la palla di destro e lascia partire il sinistro e realizzare quello che sará il goal piú famoso della storia del Calcio Italiano.

Calcio di controbalzo, e rasoiata alla sinistra di Schumacher. Il portiere tedesco riuscirá a vedere il tiro solo durante uno dei numerosi replay proposti dalla tv tedesca ProSieben o su RTL…
Due a zero. Marco Tardelli a briglie sciolte attraversa il cielo di Madrid urlando “goal, goal“. E noi con lui.
Abbracciandoci, levando i pugni al cielo. E´ lo sfogo, é la rivincita, della nostra meglio gioventú.

Noi siamo da secoli calpesti, derisi,
Perché non siam popolo, perché siam divisi.
Stringiamci a coorte, Siam pronti alla morte… l’Italia chiamò.

Siamo al minuto 69 e stiamo volando alto.

Saltano schemi e marcature. Ed è proprio in questo caos, in questa anarchia organizzata, che il genio italico si trova piú a su agio.
I tedeschi si riversano in avanti tentando il tutto per tutto. Briegel cade in area su contatto con Gentile, ma piú per stanchezza e frustrazione che per un eventuale fallo del nostro numero 6.
E noi sappiamo bene che sbilanciarsi troppo significa esporsi al contropiede. Cioé la nostra arma migliore.

https://www.youtube.com/watch?v=vIqhb-JZdR8

Al minuto 81, ripartiamo con Conti, che si invola sulla destra palla al piede, macinando tre quarti di campo, ed arrivando fino a dentro l´area tedesca.
Siamo 3 contro 3.
Al centro dell’area c’è Spillo Altobelli, con lo sguardo di chi sta alla stazione della metropolitana sbagliata, riceve il pallone. Pare scansarsi per evitare l´accorrente Schumacher e calciare la palla come per liberarsene.
Conti vede la palla finire in fondo al sacco e si inginocchia. E poi crolla a terra, esausto.

“.. e sono tre“ urla nel suo microfono Nando Martellini.

Il nostro Pesidente in tribuna si alza, sventolando la pipa come fosse un tricolore o come fosse l’elmo di Scipio, e grida al mondo: “non ci prendono piú“.

Goal, della bandiera, di Breitner al minuto 83, in semi-mischia, dopo un batti e ribatti in area. A monito che comunque con i tedeschi non si scherza. Per batterli, occorrono 90 minuti di testa e gambe.

“Palla al centro per Müller, ferma Scirea, Bergomi, Gentile… è finito! CAMPIONI DEL MONDO, CAMPIONI DEL MONDO, CAMPIONI DEL MONDO!“

Furono le parole di Martellini quando l’arbitro Coelho raccolse la palla tra le mani e la sollevó al cielo.

A questo punto potevamo guardarci negli occhi, uno con l’altro, in 50 milioni piú tutti gli altri italiani di prima o seconda generazione sparsi in mille pizzerie in giro per il mondo.
Ci guardavamo negli occhi con felicitá, orgoglio.

Perché quando ci guardavamo negli occhi uno con l´altro incontravamo lo sguardo felice di un altro campione del mondo.

Anche la nostra piccola, povera patria, “ammazzata dai giornali e dal cemento“… la nostra povera patria “schiacciata dagli abusi di potere“, poteva alzare la testa e guardare tutti, per un giorno almeno, dall´alto in basso.
La povera patria “devastata dal dolore“ per una notte conosceva solo la felicitá.
I caroselli di auto, le bandiere. Il tricolore che, almeno per una notte, non significava pizza e mandolino, ma Vittoria.

Il Re di Spagna passó la coppa a Dino, Re del Friuli, che a 40 anni e 133 giorni era il giocatore piú anziano a vincere un mondiale.

La coppa passó quindi nelle mani di Claudio Gentile e poi di Beppe Bergomi e poi di tutti gli altri. E noi a sollevarla con loro.

Con Beppe, con Antonio, con Paolo e con tutti i ragazzi della nostra meglio gioventú.

Un ricordo personale…

Il 5 luglio, data di Italia-Brasile, era stato imprudentemente scelto da una cugina per convolare a giuste nozze con il suo promesso. Il viaggio da Milano a Bergamo é decisamente molto breve, meno di un’ora.

Ma il mio babbo, zio della sposa, non voleva perdersi per nessuna ragione al mondo il giorno piú felice della sua nipotina. E partimmo prestissimo in modo da essere assolutamente certi di non perdere neppure un secondo della cerimonia.

Era solo metá mattina e le case degli zii erano tutto un brulicare di parenti, amici, addetti al catrering… io ed i miei cugini invece, tra tazze di caffelatte e cornetti alla crema, eravamo assorti nella lettura, riga per riga, parola per parola, del Vangelo Rosa.

Eravamo in totale fibrillazione. Ci separavano solo poche ore dalla Partita del Secolo e noi non sapevamo come ammazzare l’attesa e soprattutto l’ansia.
Tirare due calci al pallone, no. Perché assolutamente non ci si poteva sporcare, in previsione della cerimonia.

Giá … la cerimonia. Questo dettaglio…

La partita era di quelle che non avremmo perso per nulla al mondo, ma dovemmo negoziare, inginocchiarci… alla fine della trattativa, il verdetto.
Un tempo della partita e poi tutti in Chiesa ed al ristorante.
Punto, fine della discussione.

Ci guardammo negli occhi tra tre cugini. In fondo, si pensava tra di noi, il primo tempo si chiuderá con un 2 o 3 a zero per loro. Qualificazione alle ortiche. Andremo ad abbuffarci di dolci al ristorante per dimenticare il dolore.

E invece…
E invece il primo tempo si chiude con noi in vantiaggio per 2 a 1. Dopo i primi 45 minuti eravamo virtualmente qualificati. Stavamo battendo gli Dei dell´Olimpo.

Che fare? Il cugino piú grandicello ovviamente serró le file della truppa. Da qui non ci muoviamo. Dalla sala della tv, non ci schiodano neppure a cannonate.

Scattó l’operazione “mamma ho perso l’aereo“: ossia aprofittando del fatto che i “grandi“ erano in tutt´altre faccende affaccendati, ci nascondemmo in un bunker antiatomico. Che era in realtá il lettone degli zii… ma che aveva tutte le caratteristiche di un bunker: era scuro, ci si sarebbe potuti rinchiudere per anni, era inattaccabile. E soprattutto nessuno ci avrebbe cercato lá sotto.

Sentimmo che ci chiamavano a gran voce; per un pó provarono a cercarci tra sala, cameretta e giardino.
Ma un pó per non voler far tardi, ed un pó perché pensavano che forse ci avevano caricati su altre macchine, nel giro di 5-10 minuti nella casa si udiva soltanto il suono a noi piú caro. Il silenzio.

Uscimmo dal bunker con molta, molta circospezione.

Svaniti. Dileguati. Eravamo soli!

Accendemmo la TV quando appena i ragazzi stavano entrando in campo per il secondo tempo.

E quando al 91° della partita, dopo un minuto di recupero, l’arbitro decretó la fine delle ostilitá, ci abbracciammo e piangemmo sia di felicitá e sia pregustando i sacrosanti scapaccioni che ci sarebbero toccati di li a breve.

Ma ne erano valsi la pena. Tutta la vita!

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