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Il Ciao: com’era e come sarà

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Ciao

Sappiamo tutti che la miglior sintesi degli anni 80 sta dentro Funkytarro degli Articolo 31: e in quella sintesi, la mobilità è rappresentata dal Piaggio Ciao:

Io sono quello che impennava con il Ciao,
con la maglietta degli squallor Arrapaho,
quello che rimpiange la sella con le frange,
la targa Arizona e la marmitta Proma,
e l’adesivo dei Kiss e di Bob Marley,
il motorino che fa casino come un’Harley.

E già, il Ciao. Un niente con due ruote intorno. Era nato alla fine degli anni Sessanta come grado minimo della motorizzazione: un ciclomotore a forma di bicicletta, con il telaio aperto, il serbatoio e il cilindro (orizzontale) nascosti e i pedali per quando finivi la benzina. Meno di così non c’era niente, e grazie a questo fatto costava pochissimo: negli anni 80 anche le versioni più belle non arrivavano a un milione di lire: la metà di un tubone o di una Vespa, per dire, e un terzo di una Enduro da paninaro.

Dopo aver servito, come la Fiat 500, a rendere più agevoli gli spostamenti di milioni di operai, agricoltori e massaie, negli anni 80 il Ciao era ormai passato di diritto ai loro figli: o in eredità o perché, da nuovo, era appunto alla portata di tutte le tasche. Per cui, nonostante il poco che offriva, restò sempre un successo straordinario: con un Ciao, se messo bene, potevi non sentirti sfigato.

Per questo il Ciao non rimase solo: in risposta al suo successo arrivarono dalla fine degli anni Settanta cloni con caratteristiche più o meno simili: li facevano la Garelli, la Atala, la Cimatti, la Fantic Motor e un po’ tutti gli altri. La Piaggio aveva addirittura una gamma, con il Ciao alla base e poi il Sì con delle sospensioni degne di questo nome, e poi ancora il Bravo e il Boxer. Vendettero tutti abbastanza bene, ma nessuno ai livelli del Ciao: vuoi per il prezzo più alto, vuoi per il fascino del minimalismo spinto agli estremi; e un po’ perché con i soldi risparmiati ti potevi appunto comprare la sella con le frange e la marmitta Proma, per non sentirti sfigato.

Mentre oggi le aziende fanno a gara per offrirti prodotti già perfetti, sul Ciao ci si poteva infatti sbizzarrire. Non solo perché era dichiaratamente “no frills”, ma anche perché quando nacque i designer non esistevano, o se c’erano si nascondevano nei mobilifici. A parte l’arredamento, gli oggetti erano figli di menti tecniche e il Ciao non faceva eccezione: lo progettò Bruno Gaddi, che pur essendo ingegnere riuscì a partorire uno dei più bei frutti della meravigliosa epoca dello stile minimal italiano, a cui appartengono ad esempio la Vespa e i prodotti della Olivetti di allora.

Il Ciao era uno spettacolo di semplicità meccanica, prima ancora che estetica: raffreddamento ad aria, aiutato da una ventola ricavata sul volano, distribuzione controllata da una spalla dell’albero motore, avviamento non a pedale ma a pedali. Pedalando potevi in teoria andarci in giro; in pratica invece tra il peso, la cortezza delle leve e quella del rapporto finale, nemmeno Moser sarebbe riuscito a farci più di pochi metri. Potevi però usarli per aiutare il motore in partenza: il che la dice tutta sulle prestazioni del motore stesso, che dovendo tirare un rapporto fisso (il variatore lo avevano solo le versioni più lussuose, che però nessuno comprava), al semaforo ci metteva un po’ – ma veramente un bel po’ – a fare i primi due metri.

Ma i pedali erano lì, come tutto il resto, soprattutto perché il Ciao doveva tranquillizzare le massaie con il suo aspetto da bici da donna – e ci riuscì appieno grazie al serbatoio nascosto nel telaio, le ruote sottili, i piccoli freni a tamburo e il portapacchi. Il peso era contenuto in 40 chili, e dovendo confrontarsi con le biciclette, il fatto che praticamente mancassero le sospensioni se non due levette davanti e due molle sotto la sella non era considerato un problema. Le luci le accendevi con un tasto sul faro stesso, e per spegnere dovevi tirare una levetta. Non c’era la chiave di accensione ma solo il bloccasterzo, e insomma meno di così era difficile avere.

Proprio per questo, ci si poteva sfogare dopo. Da noi il Ciao più bello ce l’aveva Gnagno: riverniciato in nero metallizzato, pedali tolti e sostituiti con il pedale singolo di avviamento (sì, si faceva anche questo), le imprescindibili sella con le frange e marmitta Proma, e come tocco di classe un giaguaro argentato sul parafango anteriore. Un giorno glielo rubarono, e venne poi ritrovato bruciato dietro le scuole. Si mormorava che lo avesse fatto da solo per spingere il padre a comprargli una Vespa, ma se veramente era andata così, la strategia non pagò perché Gnagno passò il resto dell’estate a piedi, e l’estate successiva con una bicicletta sgangherata.

Il Ciao più veloce ce lo aveva invece Cicciàno, rosso con un carburatore grosso così che usciva da in mezzo ai pedali e collegato a un pacco lamellare che si era fatto da solo, nelle ore di meccanica a scuola. Alla fine per andare andava, ma non è che usasse la benzina nel modo migliore: faceva 4 km con un litro “come una Ferrari”, diceva Cicciàno orgoglioso, anche se poi il serbatoio da 2,8 litri limitava piuttosto decisamente i suoi spostamenti.

Gli anni 80, come ricorda J.Ax, sono infatti gli anni delle truccature feroci. Giravano Ciao con doppio carburatore, ammissione lamellare, cilindri da 75 o 80, marmitte degne di una moto da velocità. Nacquero e prosperarono intere aziende: la Polini a Bergamo, la Malossi a Bologna, la Pinasco a Genova, la Giannelli a Perugia. Oltre a fare casino come un’Harley, quei Ciao erano fantastici attrezzi da impennata, e andavano da paura: quello di Ciciàno passava i cento. Poi, però, ogni tanto arrivava una di quelle cose che chiamiamo curve, e allora capivi il senso dell’espressione “andare da paura”, perché quell’affare era alla fine una bicicletta: le gommine non tenevano un accidente, i freni non frenavano un accidente e sulle sconnessioni anche minime dell’asfalto tiravi tutti gli accidenti in tuo possesso.

Per questo i più evoluti trapiantavano l’avantreno del Sì, che in confronto ai biscottini era una forcella “vera”, degna di un Cadalora, e magari le ruote da 18 del Boxer, o quelle in lega anziché a raggi. Per i freni non c’era niente da fare, ma all’epoca accelerare era considerato molto più figo e molto più maschio che frenare, con i risultati che tutti ricordiamo.

Dopo quarant’anni buoni di successi, nel 2006 il Ciao ha finito il suo ciclo, surclassato a partire dagli anni 90 dai più abitabili, performanti e modaioli scooter e impossibilitato, anche, a superare le normative sulle emissioni con il suo semplice motore a miscela. Adesso, però, sembra destinato a tornare: in parte perché quasi tutto il buono degli anni 80 sta tornando di moda, e in parte perché di nuovo potrebbe sfruttare il traino della bicicletta, in questo caso a pedalata assistita.

I tempi sembrano insomma maturi per tornare ad offrire qualcosa di più. E quel qualcosa Piaggio ce l’ha nella pancia da qualche anno, ormai. Il Ciao 2.0 l’ha fatto e rifatto, a Pontedera le gestazioni sono sempre un po’ lunghe. Il risultato, però, di solito ripaga l’attesa. I prototipi stanno già girando, con nel telaio una batteria al litio anziché il serbatoio della benzina, e un motore elettrico anziché un pistone e un cilindro. Sarà altrettanto pulito, migliore nelle prestazioni e avrà una linea capace di far innamorare grandi e piccini, promettono. Io la marmitta Proma l’ho buttata via, ma spero che almeno la sella con le frange che ho già in cantina si possa ancora montare.

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