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Grand Prix e il Regno degli Immutabili

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Grand Prix

Era la metà degli anni 80 e io e il mio amico Pippo passavamo interi pomeriggi appostati dietro ai tigli del viale del paese, aspettando come giaguari della savana qualche Fiat 500 o 126 per la soddisfazione di superarla in bicicletta (non erano ancora MultiJet), fischiettando il motivetto di CHiPs e sentendoci John e Ponch in missione per conto di Ronald Reagan. Ma per quanto lavorare in moto come i CHiPs fosse la nostra massima aspirazione, le nostre vere bibbie televisive erano altre, e non passavano su Rete4 ma su Italia1.

Il sabato sera c’era infatti l’imperdibile accoppiata Supercar (alle 20.30) – Street Hawk (alle 21.30), seguiti dall’imperdibilissimo (ma solo nella replica della domenica alle 12) Grand Prix: il programma “ideato e condotto” da Andrea De Adamich, ex pilota celebre per la mimica facciale ristretta a una sola espressione (roba che nemmeno Schwarzenegger) e per il “punta-tacco”, incomprensibile manovra di guida a lui cara e in effetti nota solo a lui.

Grand Prix, come Drive In, il MegaSalviShow e un po’ tutte le trasmissioni berlusconiane dell’epoca, era fondamentalmente costruito come una carrellata di personaggi e situazioni: uno (sempre lo stesso) ti raccontava la Dakar, un altro la Formula Uno, un altro ancora il Rally di Montecarlo. Cambiavano i campionati, ma gli inviati no, e così finivi per affezionarti persino al testone da Isola di Pasqua di De Adamich.

Di personaggi in effetti Grand Prix ne lanciò parecchi, da Claudia Peroni a Giorgio Terruzzi; ma quello che io e Pippo aspettavamo con più impazienza era Nico Cereghini, che barbuto prima di tutti gli hipster ci raccontava le meravigliose moto dell’epoca, tutte ugualmente inavvicinabili per noi comprese le pazzesche 125 che in quegli anni l’industria italiana cominciava a produrre. C’erano quelle che ti facevano sognare i deserti dell’Africa, come le Cagiva Elefant, le Aprilia Tuareg, o le Gilera assurdamente chiamate con nomi degli Stati sudisti: Arizona, Nebraska, Dakota, e chi più ne ha più ne metta. E c’erano quelle che ti facevano sognare i campioni americani della velocità, Freddie Spencer e Randy Mamola: le Cagiva Aletta Oro e Freccia C9, le Aprilia AF1, le Honda NSR fatte in Abruzzo.

Nico le raccontava con entusiasmo persino eccessivo, sembravano tutte esenti dalla più piccola imperfezione, ed era insomma impossibile non innamorarsene. Almeno per noi. Poi chiudeva con le raccomandazioni che sono diventate così celebri da venir convertite in proverbio e addirittura in legge della Repvbblica Italiana: “casco in testa – ben allacciato – luci accese anche di giorno – e prudenza… sempre!”. Poi Nico partiva sgommando e impennando, ma chissenefrega: a sedici anni la prudenza è sempre un concetto astratto, che si applica soprattutto a gente che ha l’età dei tuoi genitori.

La cosa pazzesca di Grand Prix è la sua longevità, probabilmente consentita dal fatto che trent’anni fa Andrea De Adamich aveva già i capelli bianchi e Nico Cereghini la barba lunga: probabilmente ci sono nati. E così Villeneuve è morto, l’astro di Schumacher è sorto e tramontato, nelle moto le superstar americane sono state sostituite da quelle italiane e poi spagnole, dei rally non frega più niente a nessuno e la Dakar non si corre più in Africa, ma in Sudamerica. Eppure Grand Prix è sempre lì, sempre uguale, con lo stesso trombettio come sigla (parapapà – parapapà – parapapa – paraparaparapaparapapà) e le stesse facce a raccontare, più o meno, le stesse cose. Solo di una cosa si sono perse le tracce: il punta-tacco. Contro l’avanzare del progresso e dei cambi automatici, non c’è stato niente da fare.

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